8 giugno 2013

Diario di un Emigrante di Sella Luigi Leonardo (prima parte)




Al quinto Natale in terra straniera, quella nostalgia che mi portavo dentro da sempre era diventata un tormento che mi logorava fisicamente. Cercavo di estraniarmi, ma non ci riuscivo; avevo perso l’appetito, di notte sognavo le montagne, il paese imbiancato di neve, l’acqua dell’Astico, le brentane… mi stavo ammalando di nostalgia.
A farmi decidere avvennero alcuni fatti; il primo l’incontro con un amico che non vedevo da tempo. Lo incontrai nel salone delle scommesse. Era seduto in un angolo intento a compilare la scheda per le corse dei cavalli dell’indomani.
Nella sala un’afa opprimente, il fumo stagnante a mezz’aria appena mosso dalle pale del ventilatore. Il pavimento bagnato emanava un odore di birra rancida, nauseabondo. Mi avvicinai per salutarlo, gli chiesi come stava, alzò lo sguardo, aveva gli occhi sbiaditi, da allucinato, il sudore gli colava dalla fronte: mi resi conto che era ubriaco. 
Con una voce da sfiduciato mi disse: “Se non vinco ai cavalli non ce la faccio più a tornare in Italia.”
Mi faceva pena era entrato in un vortice senza  scampo. Al sabato dilapidava i risparmi tentando la fortuna alle corse dei cavalli ed annegava la nostalgia nell’alcool. Rimasi molto impressionato. Tempo prima era un giovane robusto, allegro, pieno di vita, ora era sull’orlo di un baratro, senza più la forza di reagire. La mattina dopo, un insolito movimento di militari, tutti gli incroci presidiati, pochi frettolosi passanti, nessuna macchina civile, solo veloci camionette della Guardia Nacional percorrevano le strade con i militari in pieno assetto di guerra,armati di tutto punto con elmetto e mitra.
Cosa stava succedendo? Era scoppiata la rivoluzione contro la dittatura. Inutilmente ascoltavo la radio per avere notizie. Passammo giorno in ansia, chiusi all’interno dell’Hotel Italia.
Finalmente, come era incominciato, tutto finì ed una relativa calma subentrò nel paese in attesa del prossimo golpe, dato che ormai la stabilità politica era molto precaria. Anche fra noi emigranti si diffondeva una certa inquietudine. Segnali poco rassicuranti non lasciavano prevedere nulla di buono. Qualche tempo dopo, passando davanti all’agenzia Italven, vidi esposta in vetrina la lista delle navi in arrivo e in partenza per l’Italai. Tra cinque giorno la Vespucci sarebbe arrivata a La Guaira. Tante volte avevo resistito a quel richiamo, ma ora non ce la facevo più. Un fulmine a ciel sereno.
Decisi: sarei tornato in Italia.
Entrai e prenotai l’imbarco. Gli ultimi giorni mi sembrarono eterni, salutai frettolosamente gli amici e in un pomeriggio afoso salii su uno di quegli autobus multicolori che percorrendo la Panamericana, dall’interno portano alla capitale Caracas. Viaggiai tutta la notte e di primo mattino arrivai a Caracas, sbrigai le ultime pratiche per l’imbarco e scesi a La Guaira. Il porto distava una ventina di chilometri.
Depositai la valigia in dogana e cercai un hotel per mangiare qualcosa e passare la notte: un ristorante Italia si trova sempre. Dopo cena mi coricai. Ero stanco, avevo viaggiato tutta la notte in condizioni disagiate attraverso il Venezuela per chilometri e chilometri. Mi svegliai verso le quattro, era ancora notte fonda, ma non riuscivo più a dormire.
Aspettai l’alba seduto su un gradino. Ascoltavo i rumori della notte; sentivo in lontananza le sirene delle navi in movimento nel porto, provavo una certa emozione. Quando uscii, un gran movimento di macchine e autobus in arrivo da Caracas. Scaricavano passeggeri diretti al porto.
Mi incamminai verso il ponte che collega la città alla stazione marittima. Incontrai due italiani: uno stava male, l’altro, suo amico, cercava di sostenerlo. Mi fermai per aiutarlo. Mi raccontò: era la seconda volta che veniva per imbarcarsi, ma lo prendeva una crisi e doveva ricoverarsi in ospedale. L’amico mi confidò che anni prima era arrivato assieme ad un fratello, poi deceduto in un incidente. Ora non aveva più il coraggio di ritornare in famiglia da solo e abbandonare il fratello in uno sperduto cimitero Venezuelano. Non sapevo come aiutarlo, il tempo stringeva, cercai di fargli coraggio, gli feci gli auguri e passai oltre.  
La bianca nave era attraccata alla banchina ed i primi passeggeri già arrivarono attraverso il ponte. Erano persone allegre, chiacchieravano tra loro, felici di essere arrivati in America. Mi sorprese il loro abbigliamento elegante: sembravano figurini appena usciti da un salone di moda...  seguirà la seconda parte

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