7 aprile 2013

I Carbonai un mestiere scomparso... seconda ed ultima parte.



In una pubblicazione mensile dell' Ente Vicentini nel Mondo, che da quasi 60 anni mantiene i legami con noi rimasti in patria e i concittadini emigrati nei diversi angoli della Terra, è stata rievocata la storia di una famiglia della Valle del Brenta che praticava un mestiere molto diffuso anche nella Val D'Astico e che ha lasciato segni indelebili sul nostro territorio: quello del carbonaio.
La pubblicazione di tale racconto, gentilmente concessa dall’Ente, è per noi anche occasione per illustrare brevemente due curiose testimonianze della presenza di una fiorente attività di carbonai nella nostra valle, fenomeno che contribuì notevolmente al sostentamento e allo sviluppo della comunità.

Un  primo tuffo nel passato ci porta nella seconda metà del 17° secolo, a quella che fu la felice scoperta della sorgente dell'acquedotto che ancora oggi alimenta la malga di Camporosà. Stando alla ricostruzione storica, l'Abate Agostino Dal Pozzo, erudito studioso dei luoghi e delle nostre popolazioni, invitò l’allora proprietario Comune di Rotzo alla posa di una targa, in località "ABI", con la scritta "Un carbonaio che a Solagna nacque tese l'orecchio e scoprì quest'acque". A riprova della presenza dell’attività nelle nostre zone. Tale luogo è ancor oggi facilmente identificabile, essendo qui presenti le vasche di presa ed accumulo di acqua potabile ad uso dei pascoli e della malga.

La seconda testimonianza ci viene da un toponimo indicativo della zona di origine di alcuni carbonai. Il piccolo borgo che si trova lungo la strada che da San Pietro Valdastico conduce a Rotzo, attualmente inglobato in Contra’ Costa, viene chiamato  "Furlani" in ricordo dei carbonai che abitavano in quella che al tempo era l’unica casa del posto. Questi lavoratori provenivano, infatti, dal Friuli Venezia Giulia (da cui l’appellativo “Furlani”) e la loro presenza come carbonai lasciò decine di segni ancora visibili sui nostri monti, fino al limitare del "Bosco Nero" (area, quest’ultima, riservata invece al lavoro dei boscaioli).  

Giorgio Slaviero











Seconda parte….


"EL POIATO"

Come si svolgeva la stagione nel bosco? Il papà partiva da solo in primavera. Egli era molto esperto nella scelta dei lotti di bosco ed era molto stimato per la sua capacità e serietà. Spesso svolgeva anche la funzione di perito per conto di altri: era in grado di indicare in anticipo la quantità di legna, e quindi di carbone, di un determinato lotto. Ogni famiglia quindi poteva scegliere a seconda delle sue braccia.
Appena trovata la sistemazione scriveva alla mamma e quindi noi ci mettevamo in viaggio col treno fino a Borgo Taro. Poi una corriera ci portava a Bedonia. Per giungere a Masanti bisognava prendere un altro mezzo e quindi si proseguiva a piedi fino al sito stabilito. Il viaggio durava una giornata. Qualche volta si usavano dei muli in affitto per il trasporto delle nostre cose. Portavamo in treno anche le galline. Nel frattempo il papà preparava la baracca (il baito) che sarebbe stata la nostra dimora fino all’autunno.
Il primo periodo era dedicato al taglio delle piante. Si trattava di una operazione da fare entro aprile perché in epoca successiva il taglio danneggiava le ceppaie. Quindi si procedeva alla troncatura e alla sramatura, e poi, al trasporto sul luogo stabilito per l’ara e il “poiato”(la carbonaia).
La legna doveva essere portata a spalla anche per 2-300 metri, in piano, in discesa e a volte anche il salita. A mano che gli anni passavano anche noi figli venivamo impiegati in tutti i lavori, dal taglio con la scure, fino all’insaccatura del carbone. Il compito di noi carbonai comprendeva anche l’insaccatura ed il carico dei muli.
Quali erano gli attrezzi? Prima di tutto la scure (manara), ne avevamo diverse. Poi “el segon” che serviva per l’abbattimento delle piante più grosse, la roncola (che a Bedonia si chiamava “marassa”), il forcone ed il rastrello per spostare il carbone.
Com’era la baracca? Era fatta di tronchi e costituita da un’unica stanza. Il papà era molto bravo e la curava in modo particolare. Vi costruiva anche un piccolo tavolo che serviva soprattutto, non per mangiare, ma per posare le pentole, il tagliere della polenta ecc. Costruiva anche qualche sgabello (scagnel)  di legno, le assi per posare le provviste. Da noi c’era sempre la classica stufa parmigiana, di ghisa, rotonda, con la pancia che, al posto dei cerchi, aveva un solo coperchio.
Nell’unica stanza si ricavava anche il letto dei genitori: quattro paletti, quattro ruvide tavole, paglia e foglie. Per noi figli (alla fine eravamo in sei), veniva costruita un’altra baracca vicina, con i letti di foglie. C’era anche una piccola costruzione per gli animali, il gabinetto esterno, insomma un piccolo villaggio.

E la vostra alimentazione?
In primavera bisognava fare le provviste: farina bianca per il pane, farina da polenta, pasta, fagioli. La mamma cuoceva anche il pane in un forno rudimentale ma pratico e funzionante. Il papà lo costruiva sul posto. Preparava il piano di cottura con pietre levigate alla meglio, predisponeva sopra un cumulo di legna che ricopriva con creta e sassi, ben costipati, quindi bruciava la legna. La creta si induriva e restava la camera di combustione; il tutto durava l’arco di una stagione. In genere i pasti variavano dal minestrone alla pastasciutta, uova, insalata coltivata nel piccolo orto, qualche gallina, funghi e asparagi di bosco trovati sul posto a seconda delle stagioni.

Quindi avevate anche degli animali?
Certamente. Da casa portavamo le galline per le uova e per la carne, qualche coniglio che compravamo sul posto, e soprattutto le capre. Ne avevamo sempre quattro o cinque. Ci venivano affidate gratuitamente dai bedoniesi  per tutta l’estate. Si mantenevano da sole e fornivano latte a sufficienza, anzi la mamma riusciva a ricavarne anche burro e formaggio. Un anno comprammo anche il maiale, ma essendo troppo piccolo per essere ucciso, lo abbiamo spedito a casa col treno, chiuso in una gabbia fatta di paletti di legno.

E l’acqua?
Le montagne di Bedonia erano ricche di acqua e quindi questo non è mai stato un grosso problema, almeno per noi. Non sempre però il torrente era vicino e quindi si doveva portare l’acqua facendo dei lunghi tragitti. con i secchi nella baracca e vicino al poiato nel caso fosse stata necessaria a spegnere qualche incendio.

Il carbone quindi vi dava da vivere?
La nostra famiglia, e prima ancora entrambe le famiglie dei genitori, hanno sempre vissuto col carbone. Il pagamento avveniva a fine stagione, in base alla quantità prodotta. Era quindi determinante la capacità organizzativa e lavorativa della famiglia. Durante la stagione si potevano ottenere degli acconti sul pagamento del carbone per le provviste e per altre necessità, mentre a fine stagione c’era il conguaglio. Negli ultimi 3-4 anni, cioè dopo il 1950, il nostro lavoro è cambiato. Consisteva nel taglio delle piante, nel ridurre i tronchi in pezzatura di un metro e nel trasportarli sul posto raggiungibile dai muli da dove un’altra squadra li trasportava a valle. Gran parte del legname veniva accatastato nella piazza di Masanti dove ora c’è la fabbrica dell’acqua minerale. In quel periodo anche il nostro alloggio era migliorato: si viveva in una casa vicino al paese.

Com’erano le condizioni sanitarie?
Dal medico si andava poco; se faceva male un dente lo si toglieva e tutto finiva lì. I bambini nascevano in casa o nella baracche. Spesso la levatrice era una donna anziana; per noi c’era la vecchia Gasparona, ma non è detto che avesse molta pratica. Mia sorella Lena fu colpita dalla poliomielite quando aveva tre anni e stavamo nel bosco. Incominciò a zoppicare e a cadere senza motivo. Subito non se ne fece caso, ma quando fu portata dal medico la situazione era grave e non guarì più. Io stessa ho vissuto un’esperienza drammatica. Avevo da poco iniziato il ciclo ed una volta fui colpita da una emorragia che durò quindici giorni e le forze mi mancavano sempre più. Mia sorella, con cui mi confidavo, mi aveva più volte invitata a dirlo alla mamma, ma io avevo paura che mi sgridasse, che mi dicesse che non avevo voglia di lavorare. Un giorno però alzandomi da sedere in baracca, restò sullo sgabello una macchia di sangue. La mamma se ne accorse e mi chiese spiegazione; poco dopo svenni. Il mattino seguente partii per andare dal medico, ma fatti un centinaio di passi, svenni di nuovo. Fui portata a valle sulle spalle. Il medico mi accompagnò subito egli stesso con la sua automobile all’ospedale di Borgotaro. Per diversi giorni non fui in grado di alzarmi dal letto e ricordo che veniva a trovarmi la paesana Vanzo Cecilia “Suffia”, anche lei ricoverata. Io non sopportavo le iniezioni, ma la cura funzionò e superai la crisi. In un’altra occasione rischiai la vita. Eravamo sopra Illica. Il papà volle far saltare con la dinamite dei tronchi molto grossi e mi invitò ad allontanarmi ed entrare nella baracca ma io corsi a prendere il gatto e feci appena in tempo a nascondermi dietro un pagliaio di foglie di rovere che i bedoniesi usavano come foraggio. Lo scoppio della mina fece volare una grossa scheggia di faggio che mi colpì di striscio alla testa. Rimasi ferita e in poco tempo fui piena di sangue, ma l’unica cura furono impacchi di acqua e sale.

In questa situazione, come avete potute frequentare la scuola?
In effetti pochi di noi hanno conseguito la quinta elementare: solo Dilva, la più giovane, mentre Ennio ha frequentato in seguito le scuole seali. Andavamo a scuola solo qualche mese durante l’inverno mentre eravamo a San Nazario. Io ho fatto più volte la prima e più volte la seconda, e basta. Quando rientravamo in autunno ci mandavano a scuola, ma non avendo mai finito un anno scolastico, tornavamo a ripetere la classe precedente, ma alla fine dell’inverno si ripartiva e allora… addio scuola. Le mie sorelle maggiori, negli anni in cui siamo rimasti a Masanti  a causa della guerra, hanno frequentato la scuola durante l’inverno, ma sempre saltuariamente. Allora erano più importanti il lavoro e l’aiuto che anche noi bambini potevano dare nel bosco.

Com’era la vita religiosa? Anche per la religione valeva la stessa consuetudine. Si frequentavano regolarmente la chiesa ed il catechismo durante l’inverno. Io ho fatto la prima comunione a San Nazario in anticipo sui miei coetanei dovendo partire; con me quel giorno c’erano anche Mocellin Giovanni “Narei” e Pianaro Mario “Susan”. Invece le sorelle Lena e Teresina hanno fatto la prima comunione a Masanti.
Durante la stagione del carbone andavamo in chiesa quasi ogni domenica. Era necessaria un’ora di strada per arrivare al paese e poi si ritornava carichi di provviste per tutta la settimana. C’era però un giorno in cui tutti i carbonai facevano festa: era il 13 giugno festa di sant’Antonio. In quella occasione tutti i lavori venivano sospesi, anzi i poiati (la carbonaia) si preparavano prima o dopo, in modo da non interferire con la ricorrenza del Santo. Era motivo non solo per festeggiare il patrono, cui i carbonai erano particolarmente devoti, ma anche un’occasione di incontro con i paesani sparsi sulle montagne degli Appennini. Vi arrivavano tutti, si salutavano, si scambiavano notizie delle famiglie, spesso bevevano e tornavano barcollando nelle baracche a notte inoltrata.

Quando avete finito di fare i boscaioli?
È stato nel 1953. Silvana ha trovato lavoro in ovattificio, il papà e noi fratelli maggiori siamo andati in Svizzera, ma solo Lena, Ennio ed io abbiamo resistito più a lungo. Il mondo poi è cambiato in fretta. 
Anche Silvana, altra figlia dei De Rossi, ha qualcosa da aggiungere riguardo all’alimentazione che, anche se può sembrare strano, era assai varia. Dell’alimentazione – racconta Silvana – una componente importante era rappresentata dalle uova e, prima della fine della stagione, anche le galline finivano in pentola. Non erano molte le volte che si mangiava carne durante la stagione nel bosco, quindi brodo e carne di gallina erano quanto di meglio si potesse avere. Qualche anno compravamo le galline dai contadini di Bedonia, in primavera, quando erano già pronte per le uova. Si mantenevano pressoché da sole perché, a parte la notte quando entravano in una piccola baracca, razzolavano libere nel bosco. La volpe però era spesso in agguato e rappresentava un serio pericolo. Successe infatti una volta che, mentre eravamo intenti al poiato e agli altri lavori, fece razzia delle nostre galline, tre le nascose, mentre le altre se le portò via. In quella occasione vidi la mamma disperata e piangere a dirotto, vedendo una simile strage, come se fosse morto uno di famiglia.
Nell’alimentazione utilizzavamo tutto quanto il bosco poteva offrire spontaneamente e, a dire la verità, il monti di Bedonia erano assai generosi. C’era per esempio abbondanza di s-ciosi(lumache con chiocciola).
Al mattino i genitori uscivano presto per lavorare e noi ragazzi portavamo loro il latte. Al ritorno riempivamo in poco spazio il tegame. Non potevamo raccoglierne molti perché non c’era modo di conservarli, ma solo quanti bastavano per uno o due pasti. Un’altra ghiottoneria che si trovava abbondante erano i funghi, molto grandi e in tutte le stagioni. La mamma li seccava sopra un’asse e così duravano per quasi tutto l’inverno, anche quando eravamo tornati in paese. C’erano poi gli asparagi di montagna. I locali ci prendevano per matti vedendoci mangiare in primavera le giovani piante, ma per noi avevano un gusto ed un profumo irresistibile.
Testo e intervista
di Eugenio Campana

-------------------------------------
Il Carbone
A fianco del “poiato” veniva acceso un fuoco che forniva tizzoni e braci ardenti per riempire quasi completamente il foro centrale, detto  “fornello”. Il fuoco veniva immesso dall’alto, nel cuore stesso del “poiato”, attraverso il foro centrale, che doveva essere subito otturato. Era quindi necessario aprire dei fori, in media uno ogni metro, partendo dall’alto, perchè l’ossigeno favorisse la combustione; in seguito venivano praticate delle aperture sempre più in basso. Dopo l’accensione, il “poiato” doveva essere continuamente sorvegliato, giorno e notte, sia per richiudere eventuali rotture dello strato esterno, in modo da evitare incendi, sia per alimentare la combustione, attraverso il foro centrale, con altra legna. Il processo di trasformazione in carbone, non derivava dalla combustione della legna, ma dalla sua “cottura”, che durava anche 8-10 giorni, a seconda della consistenza del “poiato”. Per fare un quintale di carbone erano necessari 7 quintali di legna. Venivano allestiti anche poiati con 700-800 quintali di legna verde.La trasformazione del prodotto avviene mediante un principio chimico che separa, a causa dell’elevata temperatura senza che bruci, le molecole della cellulosa formate di acqua e carbonio, restando quindi solo quest’ultimo, il carbone appunto.

L’ara (o piazza)
Particolare cura il carbonaio dedicava alla scelta e alla preparazione dell’”ara”, la piazzola su cui allestire il “poiato”. Mancando zone pianeggianti, essa veniva ricavata scavando il terreno in un sito vicino alla baracca e alla riserva d’acqua. La “piazza”, opportunamente livellata e costipata, di solito serviva per tutta la stagione e veniva utilizzata più volte.

Il poiato
Al centro della piazzola veniva allestita la carbonaia, comunemente chiamata “poiato”. I pezzi di legno, tutti della medesima lunghezza, circa 120 cm., venivano disposti, lasciando un foro nel mezzo, uno accanto all’altro, a partire da quelli più grossi per finire con quelli di minore diametro, fino ad ottenere una catasta circolare di forma conica, con un raggio di 2-4 metri ed una altezza di 3-4 metri. Ogni più piccola fessura tra i vari pezzi di legno veniva chiusa. Successivamente l’intera catasta veniva ricoperta di felci, fogliame, zolle. Quindi, con il terriccio, si formava uno strato esterno molto compatto, al fine di trasformare l’intera catasta in una camera di combustione completamente isolata dall’ossigeno esterno.




Nessun commento:

Posta un commento