In una pubblicazione mensile dell' Ente Vicentini nel Mondo, che da quasi 60 anni mantiene i legami con noi rimasti in patria e i concittadini emigrati nei diversi angoli della Terra, è stata rievocata la storia di una famiglia della Valle del Brenta che praticava un mestiere molto diffuso anche nella Val D'Astico e che ha lasciato segni indelebili sul nostro territorio: quello del carbonaio.
La pubblicazione di tale racconto, gentilmente concessa dall’Ente, è per noi anche occasione per illustrare brevemente due curiose testimonianze della presenza di una fiorente attività di carbonai nella nostra valle, fenomeno che contribuì notevolmente al sostentamento e allo sviluppo della comunità.
Un primo tuffo nel passato ci porta nella seconda metà del 17° secolo, a quella che fu la felice scoperta della sorgente dell'acquedotto che ancora oggi alimenta la malga di Camporosà. Stando alla ricostruzione storica, l'Abate Agostino Dal Pozzo, erudito studioso dei luoghi e delle nostre popolazioni, invitò l’allora proprietario Comune di Rotzo alla posa di una targa, in località "ABI", con la scritta "Un carbonaio che a Solagna nacque tese l'orecchio e scoprì quest'acque". A riprova della presenza dell’attività nelle nostre zone. Tale luogo è ancor oggi facilmente identificabile, essendo qui presenti le vasche di presa ed accumulo di acqua potabile ad uso dei pascoli e della malga.
La seconda testimonianza ci viene da un toponimo indicativo della zona di origine di alcuni carbonai. Il piccolo borgo che si trova lungo la strada che da San Pietro Valdastico conduce a Rotzo, attualmente inglobato in Contra’ Costa, viene chiamato "Furlani" in ricordo dei carbonai che abitavano in quella che al tempo era l’unica casa del posto. Questi lavoratori provenivano, infatti, dal Friuli Venezia Giulia (da cui l’appellativo “Furlani”) e la loro presenza come carbonai lasciò decine di segni ancora visibili sui nostri monti, fino al limitare del "Bosco Nero" (area, quest’ultima, riservata invece al lavoro dei boscaioli).
Giorgio Slaviero
Seconda parte….
"EL POIATO" |
Come si svolgeva la stagione nel
bosco? Il papà partiva da solo in primavera. Egli era molto esperto nella
scelta dei lotti di bosco ed era molto stimato per la sua capacità e serietà.
Spesso svolgeva anche la funzione di perito per conto di altri: era in grado di
indicare in anticipo la quantità di legna, e quindi di carbone, di un
determinato lotto. Ogni famiglia quindi poteva scegliere a seconda delle sue
braccia.
Appena trovata la sistemazione
scriveva alla mamma e quindi noi ci mettevamo in viaggio col treno fino a Borgo
Taro. Poi una corriera ci portava a Bedonia. Per giungere a Masanti bisognava
prendere un altro mezzo e quindi si proseguiva a piedi fino al sito stabilito.
Il viaggio durava una giornata. Qualche volta si usavano dei muli in affitto per
il trasporto delle nostre cose. Portavamo in treno anche le galline. Nel
frattempo il papà preparava la baracca (il baito) che sarebbe stata la nostra
dimora fino all’autunno.
Il primo periodo era dedicato al
taglio delle piante. Si trattava di una operazione da fare entro aprile perché
in epoca successiva il taglio danneggiava le ceppaie. Quindi si procedeva alla
troncatura e alla sramatura, e poi, al trasporto sul luogo stabilito per l’ara
e il “poiato”(la carbonaia).
La legna doveva essere portata a
spalla anche per 2-300 metri, in piano, in discesa e a volte anche il salita. A
mano che gli anni passavano anche noi figli venivamo impiegati in tutti i
lavori, dal taglio con la scure, fino all’insaccatura del carbone. Il compito
di noi carbonai comprendeva anche l’insaccatura ed il carico dei muli.
Quali erano gli attrezzi? Prima
di tutto la scure (manara), ne avevamo diverse. Poi “el segon” che serviva per
l’abbattimento delle piante più grosse, la roncola (che a Bedonia si chiamava
“marassa”), il forcone ed il rastrello per spostare il carbone.
Com’era la baracca? Era fatta di
tronchi e costituita da un’unica stanza. Il papà era molto bravo e la curava in
modo particolare. Vi costruiva anche un piccolo tavolo che serviva soprattutto,
non per mangiare, ma per posare le pentole, il tagliere della polenta ecc.
Costruiva anche qualche sgabello (scagnel)
di legno, le assi per posare le provviste. Da noi c’era sempre la
classica stufa parmigiana, di ghisa, rotonda, con la pancia che, al posto dei
cerchi, aveva un solo coperchio.
Nell’unica stanza si ricavava
anche il letto dei genitori: quattro paletti, quattro ruvide tavole, paglia e
foglie. Per noi figli (alla fine eravamo in sei), veniva costruita un’altra
baracca vicina, con i letti di foglie. C’era anche una piccola costruzione per
gli animali, il gabinetto esterno, insomma un piccolo villaggio.
E la vostra alimentazione?
In primavera bisognava fare le
provviste: farina bianca per il pane, farina da polenta, pasta, fagioli. La
mamma cuoceva anche il pane in un forno rudimentale ma pratico e funzionante.
Il papà lo costruiva sul posto. Preparava il piano di cottura con pietre
levigate alla meglio, predisponeva sopra un cumulo di legna che ricopriva con
creta e sassi, ben costipati, quindi bruciava la legna. La creta si induriva e
restava la camera di combustione; il tutto durava l’arco di una stagione. In
genere i pasti variavano dal minestrone alla pastasciutta, uova, insalata
coltivata nel piccolo orto, qualche gallina, funghi e asparagi di bosco trovati
sul posto a seconda delle stagioni.
Quindi avevate anche degli animali?
Certamente. Da casa portavamo le
galline per le uova e per la carne, qualche coniglio che compravamo sul posto,
e soprattutto le capre. Ne avevamo sempre quattro o cinque. Ci venivano affidate
gratuitamente dai bedoniesi per tutta
l’estate. Si mantenevano da sole e fornivano latte a sufficienza, anzi la mamma
riusciva a ricavarne anche burro e formaggio. Un anno comprammo anche il
maiale, ma essendo troppo piccolo per essere ucciso, lo abbiamo spedito a casa
col treno, chiuso in una gabbia fatta di paletti di legno.
E l’acqua?
Le montagne di Bedonia erano
ricche di acqua e quindi questo non è mai stato un grosso problema, almeno per
noi. Non sempre però il torrente era vicino e quindi si doveva portare l’acqua facendo
dei lunghi tragitti. con i secchi nella baracca e vicino al poiato nel caso
fosse stata necessaria a spegnere qualche incendio.
Il carbone quindi vi dava da vivere?
La nostra famiglia, e prima
ancora entrambe le famiglie dei genitori, hanno sempre vissuto col carbone. Il
pagamento avveniva a fine stagione, in base alla quantità prodotta. Era quindi
determinante la capacità organizzativa e lavorativa della famiglia. Durante la
stagione si potevano ottenere degli acconti sul pagamento del carbone per le
provviste e per altre necessità, mentre a fine stagione c’era il conguaglio. Negli
ultimi 3-4 anni, cioè dopo il 1950, il nostro lavoro è cambiato. Consisteva nel
taglio delle piante, nel ridurre i tronchi in pezzatura di un metro e nel
trasportarli sul posto raggiungibile dai muli da dove un’altra squadra li
trasportava a valle. Gran parte del legname veniva accatastato nella piazza di
Masanti dove ora c’è la fabbrica dell’acqua minerale. In quel periodo anche il
nostro alloggio era migliorato: si viveva in una casa vicino al paese.
Com’erano le condizioni sanitarie?
Dal medico si andava poco; se
faceva male un dente lo si toglieva e tutto finiva lì. I bambini nascevano in
casa o nella baracche. Spesso la levatrice era una donna anziana; per noi c’era
la vecchia Gasparona, ma non è detto che avesse molta pratica. Mia sorella Lena
fu colpita dalla poliomielite quando aveva tre anni e stavamo nel bosco.
Incominciò a zoppicare e a cadere senza motivo. Subito non se ne fece caso, ma
quando fu portata dal medico la situazione era grave e non guarì più. Io stessa
ho vissuto un’esperienza drammatica. Avevo da poco iniziato il ciclo ed una
volta fui colpita da una emorragia che durò quindici giorni e le forze mi
mancavano sempre più. Mia sorella, con cui mi confidavo, mi aveva più volte invitata
a dirlo alla mamma, ma io avevo paura che mi sgridasse, che mi dicesse che non
avevo voglia di lavorare. Un giorno però alzandomi da sedere in baracca, restò
sullo sgabello una macchia di sangue. La mamma se ne accorse e mi chiese
spiegazione; poco dopo svenni. Il mattino seguente partii per andare dal
medico, ma fatti un centinaio di passi, svenni di nuovo. Fui portata a valle
sulle spalle. Il medico mi accompagnò subito egli stesso con la sua automobile
all’ospedale di Borgotaro. Per diversi giorni non fui in grado di alzarmi dal
letto e ricordo che veniva a trovarmi la paesana Vanzo Cecilia “Suffia”, anche
lei ricoverata. Io non sopportavo le iniezioni, ma la cura funzionò e superai
la crisi. In un’altra occasione rischiai la vita. Eravamo sopra Illica. Il papà
volle far saltare con la dinamite dei tronchi molto grossi e mi invitò ad
allontanarmi ed entrare nella baracca ma io corsi a prendere il gatto e feci
appena in tempo a nascondermi dietro un pagliaio di foglie di rovere che i
bedoniesi usavano come foraggio. Lo scoppio della mina fece volare una grossa
scheggia di faggio che mi colpì di striscio alla testa. Rimasi ferita e in poco
tempo fui piena di sangue, ma l’unica cura furono impacchi di acqua e sale.
In questa situazione, come avete potute frequentare la scuola?
In effetti pochi di noi hanno
conseguito la quinta elementare: solo Dilva, la più giovane, mentre Ennio ha
frequentato in seguito le scuole seali. Andavamo a scuola solo qualche mese
durante l’inverno mentre eravamo a San Nazario. Io ho fatto più volte la prima
e più volte la seconda, e basta. Quando rientravamo in autunno ci mandavano a
scuola, ma non avendo mai finito un anno scolastico, tornavamo a ripetere la
classe precedente, ma alla fine dell’inverno si ripartiva e allora… addio
scuola. Le mie sorelle maggiori, negli anni in cui siamo rimasti a Masanti a causa della guerra, hanno frequentato la
scuola durante l’inverno, ma sempre saltuariamente. Allora erano più importanti
il lavoro e l’aiuto che anche noi bambini potevano dare nel bosco.
Com’era la vita religiosa? Anche per la religione valeva la stessa
consuetudine. Si frequentavano regolarmente la chiesa ed il catechismo durante
l’inverno. Io ho fatto la prima comunione a San Nazario in anticipo sui miei
coetanei dovendo partire; con me quel giorno c’erano anche Mocellin Giovanni
“Narei” e Pianaro Mario “Susan”. Invece le sorelle Lena e Teresina hanno fatto
la prima comunione a Masanti.
Durante la stagione del carbone
andavamo in chiesa quasi ogni domenica. Era necessaria un’ora di strada per
arrivare al paese e poi si ritornava carichi di provviste per tutta la
settimana. C’era però un giorno in cui tutti i carbonai facevano festa: era il
13 giugno festa di sant’Antonio. In quella occasione tutti i lavori venivano
sospesi, anzi i poiati (la carbonaia) si preparavano prima o dopo, in modo da
non interferire con la ricorrenza del Santo. Era motivo non solo per
festeggiare il patrono, cui i carbonai erano particolarmente devoti, ma anche
un’occasione di incontro con i paesani sparsi sulle montagne degli Appennini.
Vi arrivavano tutti, si salutavano, si scambiavano notizie delle famiglie, spesso
bevevano e tornavano barcollando nelle baracche a notte inoltrata.
Quando avete finito di fare i boscaioli?
È stato nel 1953. Silvana ha
trovato lavoro in ovattificio, il papà e noi fratelli maggiori siamo andati in
Svizzera, ma solo Lena, Ennio ed io abbiamo resistito più a lungo. Il mondo poi
è cambiato in fretta.
Anche Silvana, altra figlia dei
De Rossi, ha qualcosa da aggiungere riguardo all’alimentazione che, anche se
può sembrare strano, era assai varia. Dell’alimentazione – racconta Silvana –
una componente importante era rappresentata dalle uova e, prima della fine
della stagione, anche le galline finivano in pentola. Non erano molte le volte
che si mangiava carne durante la stagione nel bosco, quindi brodo e carne di
gallina erano quanto di meglio si potesse avere. Qualche anno compravamo le
galline dai contadini di Bedonia, in primavera, quando erano già pronte per le
uova. Si mantenevano pressoché da sole perché, a parte la notte quando
entravano in una piccola baracca, razzolavano libere nel bosco. La volpe però
era spesso in agguato e rappresentava un serio pericolo. Successe infatti una
volta che, mentre eravamo intenti al poiato e agli altri lavori, fece razzia
delle nostre galline, tre le nascose, mentre le altre se le portò via. In
quella occasione vidi la mamma disperata e piangere a dirotto, vedendo una
simile strage, come se fosse morto uno di famiglia.
Nell’alimentazione utilizzavamo
tutto quanto il bosco poteva offrire spontaneamente e, a dire la verità, il
monti di Bedonia erano assai generosi. C’era per esempio abbondanza di s-ciosi(lumache
con chiocciola).
Al mattino i genitori uscivano
presto per lavorare e noi ragazzi portavamo loro il latte. Al ritorno
riempivamo in poco spazio il tegame. Non potevamo raccoglierne molti perché non
c’era modo di conservarli, ma solo quanti bastavano per uno o due pasti.
Un’altra ghiottoneria che si trovava abbondante erano i funghi, molto grandi e
in tutte le stagioni. La mamma li seccava sopra un’asse e così duravano per
quasi tutto l’inverno, anche quando eravamo tornati in paese. C’erano poi gli
asparagi di montagna. I locali ci prendevano per matti vedendoci mangiare in
primavera le giovani piante, ma per noi avevano un gusto ed un profumo
irresistibile.
Testo e intervista
di Eugenio Campana
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Il Carbone
A fianco del “poiato” veniva acceso un fuoco che forniva
tizzoni e braci ardenti per riempire quasi completamente il foro centrale,
detto “fornello”. Il fuoco veniva
immesso dall’alto, nel cuore stesso del “poiato”, attraverso il foro centrale,
che doveva essere subito otturato. Era quindi necessario aprire dei fori, in
media uno ogni metro, partendo dall’alto, perchè l’ossigeno favorisse la
combustione; in seguito venivano praticate delle aperture sempre più in basso. Dopo
l’accensione, il “poiato” doveva essere continuamente sorvegliato, giorno e
notte, sia per richiudere eventuali rotture dello strato esterno, in modo da
evitare incendi, sia per alimentare la combustione, attraverso il foro
centrale, con altra legna. Il processo di trasformazione in carbone, non
derivava dalla combustione della legna, ma dalla sua “cottura”, che durava
anche 8-10 giorni, a seconda della consistenza del “poiato”. Per fare un
quintale di carbone erano necessari 7 quintali di legna. Venivano allestiti
anche poiati con 700-800 quintali di legna verde.La trasformazione del prodotto
avviene mediante un principio chimico che separa, a causa dell’elevata
temperatura senza che bruci, le molecole della cellulosa formate di acqua e
carbonio, restando quindi solo quest’ultimo, il carbone appunto.
L’ara (o piazza)
Particolare cura il carbonaio dedicava alla scelta e alla
preparazione dell’”ara”, la piazzola su cui allestire il “poiato”. Mancando
zone pianeggianti, essa veniva ricavata scavando il terreno in un sito vicino
alla baracca e alla riserva d’acqua. La “piazza”, opportunamente livellata e
costipata, di solito serviva per tutta la stagione e veniva utilizzata più
volte.
Il poiato
Al centro della piazzola veniva allestita la carbonaia,
comunemente chiamata “poiato”. I pezzi di legno, tutti della medesima
lunghezza, circa 120 cm., venivano disposti, lasciando un foro nel mezzo, uno
accanto all’altro, a partire da quelli più grossi per finire con quelli di
minore diametro, fino ad ottenere una catasta circolare di forma conica, con un
raggio di 2-4 metri ed una altezza di 3-4 metri. Ogni più piccola fessura tra i
vari pezzi di legno veniva chiusa. Successivamente l’intera catasta veniva
ricoperta di felci, fogliame, zolle. Quindi, con il terriccio, si formava uno
strato esterno molto compatto, al fine di trasformare l’intera catasta in una
camera di combustione completamente isolata dall’ossigeno esterno.
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