6 aprile 2013

I Carbonai un mestiere scomparso... prima parte

 In una pubblicazione mensile dell' Ente Vicentini nel Mondo, che da quasi 60 anni mantiene i legami con noi rimasti in patria e i concittadini emigrati nei diversi angoli della Terra, è stata rievocata la storia di una famiglia della Valle del Brenta che praticava un mestiere molto diffuso anche nella Val D'Astico e che ha lasciato segni indelebili sul nostro territorio: quello del carbonaio.
La pubblicazione di tale racconto, gentilmente concessa dall’Ente, è per noi anche occasione per illustrare brevemente due curiose testimonianze della presenza di una fiorente attività di carbonai nella nostra valle, fenomeno che contribuì notevolmente al sostentamento e allo sviluppo della comunità.

Un  primo tuffo nel passato ci porta nella seconda metà del 17° secolo, a quella che fu la felice scoperta della sorgente dell'acquedotto che ancora oggi alimenta la malga di Camporosà. Stando alla ricostruzione storica, l'Abate Agostino Dal Pozzo, erudito studioso dei luoghi e delle nostre popolazioni, invitò l’allora proprietario Comune di Rotzo alla posa di una targa, in località "ABI", con la scritta "Un carbonaio che a Solagna nacque tese l'orecchio e scoprì quest'acque". A riprova della presenza dell’attività nelle nostre zone. Tale luogo è ancor oggi facilmente identificabile, essendo qui presenti le vasche di presa ed accumulo di acqua potabile ad uso dei pascoli e della malga.

La seconda testimonianza ci viene da un toponimo indicativo della zona di origine di alcuni carbonai. Il piccolo borgo che si trova lungo la strada che da San Pietro Valdastico conduce a Rotzo, attualmente inglobato in Contra’ Costa, viene chiamato  "Furlani" in ricordo dei carbonai che abitavano in quella che al tempo era l’unica casa del posto. Questi lavoratori provenivano, infatti, dal Friuli Venezia Giulia (da cui l’appellativo “Furlani”) e la loro presenza come carbonai lasciò decine di segni ancora visibili sui nostri monti, fino al limitare del "Bosco Nero" (area, quest’ultima, riservata invece al lavoro dei boscaioli).  

Giorgio Slaviero







Analizzando il fenomeno migratorio della Valbrenta, ci si rende  conto che questo territorio non ha vissuto  solo l’esodo verso il Sud America alla fine del 1800, o verso la Francia, il Belgio, la Svizzera, negli anni dal 920 al 1960. Un’altra attività, quella della produzione del carbone di legna, ha portato i valligiani in paesi lontani in cerca di lavoro.
Il far carbone, per gli abitanti di San Nazario, Valstagna, Solagna, Romano ’Ezzelino, era un’arte antica, acquisita lungo secoli di esperienza nel disboscamento della montagna per ricavare prati e pascoli, colture più redditizie del bosco. Lunghe e documentate, per esempio, sono state, nei secoli scorsi, le contese tra i boscaioli di San Nazario, di Solagna e di Pove, che si contendevano il diritto di far carbone; qualche volta, anche i Comuni concedevano ad estranei alcuni boschi per tagliare la legna e farvi carbone, e ciò per far fronte alle sempre crescenti spese comunali e alle necessità delle loro popolazioni. Due sono stati i periodi che hanno caratterizzato questo lavoro. Il primo va dal 1890 al 1914 e l’emigrazione, che solitamente durava diversi anni, era diretta verso i territori dell’Impero Austro-Ungarico. Così divennero familiari regioni come la Carinzia, la Stiria, la Slovenia, ma anche la Bosnia e la Carniola. Questa emigrazione terminò improvvisamente con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale.  
Successivamente l’attività dei carbonai ha ripreso nuovo vigore: tra il 1920 e il 1944 con destinazione Slovenia e Croazia, e verso gli Appennini dal 1920 al 1950, sviluppandosi in quest’ultimo caso stagionalmente. L’attività dei carbonai finì a metà del secolo scorso, quando si aprì una più redditizia emigrazione verso la Francia o la Svizzera, ed il carbone non fu più richiesto, soppiantato dal petrolio.
Recentemente è stata presentata a San Nazario una bella mostra che ha ripercorso, attraverso immagini inedite e didascalie, la difficile attività dei carbonai. Con l’occasione sono state raccolte alcune testimonianze che hanno messo in luce le caratteristiche di questo lavoro e le difficili condizioni in cui era praticato.
Presentiamo i ricordi di Bruna e Silvana De Rossi la cui la cui famiglia ha svolto questa attività nell’arco di oltre mezzo secolo. La famiglia De Rossi,    una vita nei boschi a far carbone Bruna De Rossi ha vissuto il primi sedici anni della sua vita nei boschi a far carbone. Parla del “poiato”, della baracca, della vita in montagna con un po’ di nostalgia, quasi che non si fosse trattato di fatica, di vita difficile, grama, ma erano gli anni della sua infanzia, quando le stagioni si rincorrevano uguali e serene, in seno alla numerosa famiglia, eppure stagioni sempre diverse, a mano a mano che lo scorrere dei giorni aumentava la consapevolezza di un futuro sempre più incerto. Bruna afferma sincera: «Mi è sempre piaciuto lavorare nel bosco, con i genitori, con le sorelle, il fratello. Ancora oggi rifarei tutto come allora». «Noi abbiamo sempre fatto i carbonai – racconta. Io sono nata a Bedonia nel 1937 e fino al 1953 ho sempre fatto la spola tra San Nazario e Masanti, una frazione di Bedonia in provincia di Parma. I miei genitori però vi si recavano con le rispettive famiglie fin dai primi anni del dopoguerra, circa dal 1923. Il papà e la mamma si sono conosciuti in una località sopra Illica di Bedonia, alla festa di Santa Giustina, si sposarono a Bedonia nel 1926 e andarono ad abitare in una piccola baracca costruita per loro. Il letto era fatto di foglie. Da allora la loro vita si è sviluppata tra il nostro paese, San Nazario, e Bedonia, con le sue contrade, che divenne la seconda patria: dei sei figli, quattro sono nati a San Nazario e due a Bedonia». Il papà Enrico De Rossi era originario da Montebelluna in provincia di Treviso, ed è nato nel 1901 a Busavaija, una località montana dell’Austria, dove già lavoravano a far carbone anche altre famiglie di San Nazario, i Gheno, gli Scotton, i Ceccon.  Anche la moglie Emma Scotton della famiglia “Mocolon” è nata nel 1907, da un’antica famiglia di carbonai, in Austria, nella Stiria, una regione montana a Est di Graz.
L’emigrazione dei Sannazzaresi nei territori del vastissimo impero austro-ungarico, era iniziata verso il 1890, coinvolgendo decine di famiglie, e terminò improvvisamente nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, quando i carbonai furono costretti  a rimpatriare nel bel mezzo della stagione lavorativa, senza mezzi per vivere, costretti a rivolgersi al Comune per reclamare “o pane o lavoro”. In breve tempo la civica amministrazione ha visto esaurirsi le già magre entrate nella distribuzione di grano e minestre preparate con cucine economiche appositamente predisposte. Anche noi – riprende Bruna – durante l’ultima guerra siamo dovuti tornare a San Nazario in modo avventuroso. Il treno è stato costretto a fermarsi prima del Po, perché a causa dei bombardamenti il ponte era crollato. Abbiamo dovuto percorrere un lungo tratto a piedi, attraversare il fiume con le barche, e proseguire ancora a piedi fino alla prima stazione.

Fine prima parte…..











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