Una volta bastava alzare la voce da un cortile all’altro e te capivi tuto: “Porteme ‘na candèla!”, “Varda che piove!”, “Va a torme un po de legna!”
Adesso invece, se senti due giovani che parlano, ti pare d’esser finìo in
Inghilterra: “Bro, ci vediamo stasera per la call?”
E tu resti là, a chiederti se stia parlando col suo amico o con un computer.
Il nostro dialetto veneto – si sta
consumando piano piano.
Un po’ perché a scuola non si parla più, un po’ perché i genitori si vergognano
a insegnarlo, e un po’ perché il telefono ha sostituito il nonno che ti
raccontava le storie davanti al fogo.
E la lingua cimbra, lassù nei nostri paesi
tra i monti?
Quella ormai la senti solo nei nomi dei posti o in qualche canto che sopravvive
per miracolo.
Un patrimonio di suoni, parole e gesti che rischia di sparire come la neve al
primo sole.
Se andiamo avanti così, tra vent’anni del nostro
dialetto resteranno solo qualche scritta turistica e due nonni testardi che
ancora ti salutano chiedendoti “De
chi situ ti?”.
E i giovani? Loro parleranno in sigle: “LOL”, “BRB”, “BTW”… un linguaggio
veloce, ma senz’anima.
Forse dovremmo fermarci un attimo e ricordarci
che una lingua non muore quando non la si parla più, ma quando non la si
sente più come propria.
Finché ghi n’è, parlemo veneto.
Perché quando sparirà anche l’ultimo “de chi situ ti?”, non perderemo
solo parole… ma un pezzo di noi.
gino
